Nella mente dei gatti

Per il gatto è utile fare riferimento a quello che è stato il suo più antico mestiere: prendere topi. Uno dei pochissimi, in verità, per questo domestico, e non a caso si tratta di un mestiere solitario.


La cosa, però, non è poi così semplice, perché prendere i topi è «un istinto che si insegna». Il che, se ci pensate, altro non è che un ossimoro. Se infatti c'è un'idea astratta che tutta la gente comune conosce, è quella di istinto. E altrettanto comune è l'idea che gli istinti non si apprendono perché, appunto, sono innati. Credo, oltretutto, che tale conoscenza derivi non solo da un'antica esperienza nata dall'osservazione degli animali: tale certezza si consolida per la sensazione che noi stessi, talora, agiamo per istinto. Capita infatti che si dica: «Ho fatto istintivamente» e in tale frase si percepisce quasi una connotazione di scusa, come se l'autore dell'azione non se ne sentisse responsabile. Un azione gli è uscita indipendentemente dalla sua volontà e consapevolezza, automaticamente in risposta a una certa situazione-stimolo. Era «scritta dentro» e gli è scappata fuori. Inoltre: qualsiasi altro avrebbe agito come lui, perché l'istinto non è un fatto personale, ma della specie. Se così fosse, però, che bisogno ci sarebbe di un insegnamento?

Contrariamente alle supposizioni della gente comune, tra gli studiosi del comportamento c'è tutta una storia di dubbi, di polemiche e di insicurezze. In realtà l'antica contrapposizione tra istinto e apprendimento s'è andata nel tempo sfumando. Si preferisce affermare, oggi, che tra l'uno e l'altro un confine netto non ci sia. E il caso della gatta che insegna ai gattini a predare, veramente un caso estremo, ci chiarirà le idee e non soltanto sui comportamenti istintivi ma anche, in modo più mirato, sulla mente del gatto.

Questo animale, anche se non è più completamente naturale, «possiede» ancora l'antico istinto della predazione, quello proprio del suo selvatico progenitore. Manifesta cioè inalterata la sequenza di comportamenti che va dalla ricerca della preda fino all'agguato, alla cattura e uccisione, all'ingestione dell'animale sbranato. Un rituale pressoché invariabile che, appunto, ha fatto pensare che questo felino avesse quei comportamenti «scritti dentro». Il che, intendiamoci, non è che sia completamente falso; esiste però la faccenda, notissima e facilmente verificabile, dell'insegnamento che la madre fa ai gattini.

È interessante osservarla, questa didattica, che si sviluppa attraverso una serie ben studiata di lezioni. La gatta inizia, è la prima lezione, portando la preda già uccisa davanti ai gattini e mangiandola in loro presenza. La volta dopo, seconda lezione, permette ai piccoli di partecipare al banchetto e anche di giocare con la preda, che comunque anche questa volta sarà portata in loro presenza uccisa. Solo in seguito, terza lezione, la madre offre ai figli una preda ancora viva, che libera davanti a loro, emettendo uno speciale miagolio che ha la funzione di stimolare i gattini all'azione. In questa ultima fase la gatta, che segue attenta il comportamento dei figli, può anche, se è il caso, intervenire perché tutto vada a buon fine. Per esempio, se la preda fugge, la insegue, la cattura e la riporta.

La cattura, l'uccisione, l'ingestione della preda sono una serie concatenata di atti che il predatore compie come risposta alla percezione di una possibile preda.

In questo caso l'insegnamento si esplica essenzialmente attraverso la progressiva inibizione degli atti della predazione che l'insegnante inconsapevolmente impone a se stessa. In una primissima fase, infatti, la gatta semplicemente ritarda l'azione del nutrirsi finché non è in presenza dei figli; poi il blocco del suo comportamento, cioè l'inibizione, sarà completo, perché la preda, già uccisa, verrà messa a loro disposizione. Infine anche l'uccisione sarà inibita e la preda, viva, sarà offerta ai figli. Questi pertanto, partendo dalla fine per arrivare all'inizio, durante questa speciale didattica si sostituiscono come attori alla madre, che segue sempre attenta il comparire delle loro azioni. Ed è proprio questo fatto, questa attenzione, la fondamentale caratteristica dell'insegnamento. Non sono rari infatti i casi in cui un'abitudine viene trasmessa per via di apprendimento (apprendimento sociale) da una generazione all'altra. Di norma però chi possiede l'abitudine semplicemente la compie, potrei dire, «per i fatti suoi». Non si interessa, cioè, che qualcuno lo stia imitando, e con profitto. Ebbene, nel caso dell'insegnamento chi possiede l'abitudine è attento, invece, e spesso addirittura calibra il suo comportamento alla reazione dei discenti. Non raramente, infine, il vero insegnamento è anche caratterizzato da specifiche vocalizzazioni che hanno funzione di stimolo ad agire, di incoraggiamento.


L'istinto demolito

Le ricerche sul gatto hanno dimostrato che l'insegnamento di norma è essenziale perché la predazione si manifesti e si organizzi nella consueta sequenza. Sembra inoltre che anche l'immagine della preda debba essere appresa, e in uno specifico periodo dello sviluppo. Che cosa resta, pertanto, dell'antica idea di istinto? Certo non molto, ma una cosa almeno sì, perché i comportamenti attuati dai gattini e organizzati dall'insegnamento e dal gioco, che di questo è parte, sono sempre gli stessi e vengono definiti «moduli fissi di attività» (fixed action patterns).

Torniamo, a questo punto, all'addomesticamento, cercando di capire che cosa il gatto domestico s'è portato dietro dal suo selvatico progenitore ma, anche, in che cosa quest'animale è cambiato. Passando dalla selva alla casa altre pressioni selettive sono infatti subentrate, e non c'è da meravigliarsi se il gatto selvatico si sia nel tempo trasformato in qualcosa di diverso. Esattamente com'è successo nell'evoluzione da lupo a cane.

A Hacilar, nell'Anatolia sud-occidentale, hanno scoperto delle strane statuette di circa otto mila anni fa raffiguranti donne che allattano al seno dei gattini. La stranezza, veramente, sta soltanto nel fatto che i gattini risultano, per la loro piccolezza, sproporzionati. Sarebbero, in realtà, troppo minuscoli per una mammella umana. Quanto al resto, però, è noto da tempo che i giovani mammiferi suscitano nella nostra specie comportamenti d'adozione e capita, in qualche caso, che addirittura evochino l'allattamento al seno.

Ben lo si sa, del resto: la presenza di segnali infantili, l'adozione da questi provocata, il conseguente reciproco instaurarsi di legami socio-affettivi sono stati essenziali perché prendessero avvio i processi di addomesticamento, almeno in certi uccelli e mammiferi. Dunque porrebbe essere stato cosi anche per il gatto. Cerro è che quello selvatico, così come lo conosciamo, è veramente assai poco sociale: vive in territori individuali e preda in modo solitario. Poi qualcosa cambiò. Pare che in Egitto, migliaia di anni fa, gatti ancora selvatici si siano introdotti, progressivamente adattandosi a vivere insieme, negli immensi granai infestati di roditori.

E sarebbe stata questa concentrazione di prede la prima pressione selettiva a favore di un incremento della loro socialità. L'uomo, durante quel primo passo, sarebbe stato solo un testimone, per quanto interessato. Non è certo facile ricostruire la storia dell'addomesticamento del gatto. Quelle statuette, quei micini poppanti da seni umani rimangono comunque una realtà, e quell'intimità interspecifica fissata nella terracotta. Ecco allora che cosa potremmo vedere: il gattino poppa, e intanto con ritmo costante massaggia con le sue zampine il seno umano (tutti i gattini fanno così quando succhiano il latte). Bene, è utile soffermarsi su questo comportamento perché ha anch'esso a che fare con l'evoluzione della socialità del gatto domestico.


Nella mente dei gatti
Gatto pensieroso..

Non c'è alcun dubbio che il gatto abbia una mente. Nel suo rapporto con noi, usa in modo un pò confuso segnali che gli provengono tutti, o quasi, da quella primigenia isola sociale. E da lì che deriva la sua affettività e noi, attraverso l'imprinting, ne siamo divenuti un bersaglio privilegiato. C'è un altro comportamento (si tratta solo di un fatto femminile). Capita, ogni tanto, se nehanno l'occasione, che le gatte portino in casa un topolino, oppure un uccellino o una lucertola ancora vivi ma tramortiti, certo non un bello spettacolo, per presentarli poi dì fronte al padrone. Sarebbe, per loro, la prima lezione del comportamento di predazione che vorrebbero, bontà loro, propinarci! E noi saremmo, nell'occasione, i loro amati figli!

Difficile è comunque capire che cosa alberga nella mente di un gatto. Giorgio Manganelli una volta scrisse: «L'uso che l'uomo fa del gatto è del tutto fantastico, e insieme devoto».


Nella mente dei gatti
..selvatico e devoto

Se consideriamo il gatto selvatico, non c'è dubbio che, in quel mare di solitudine e di asocialità che è la sua vita, l'isola più importante in cui c'è concentrata la poca socialità propria della specie è quella delle cure parentali, che durano a lungo e che sono ricche di rapporti importanti. Cosi dev'essere stato proprio partendo da quell'isola che, soprattutto, l'uomo ha selezionato per rendere il gatto domestico un poco più sociale. E questa non è solo una supposizione, perché il nostro gatto di casa è, sì potrebbe dire, un concentrato di infantilismo e di comportamenti materni. Avete notato, per esempio, che cosa fa quando ronfando s'avvicina benevolmente e si strofina con le guance e con i fianchi contro le nostre gambe, la coda alzata, gli orecchi dritti, la schiena un pò arcuata? Ecco, se l'osservate bene, se gli guardate le zampe anteriori, noterete questa manovra: un alternato movimento, quasi il micio simulasse i movimento delle mani di un fornaio che preme sull'impasto per renderlo più compatto. Avendo presente ciò, quel gattofilo convinto e immaginifico che è Giorgio Celli ha coniato la felice espressione di «gatto panettiere". Si, sembra proprio che faccia la pasta, il micio ronfante. Ebbene, quel comportamento, già Darwin lo capì, altro non è che un residuo infantile traslocato. E del resto anche il comportamento, che tanto ci piace, del fare le fusa è, in origine, localizzato all'interno del rapporto prole-genitori.

Almeno qualcosa sappiamo: noi per il gatto non siamo un padrone, perché nella sua mente non c'è spazio per la gerarchla. Che cosa rappresentiamo allora? Figli, genitori, un misto dei due casi? Ciò che è certo è che il gatto ha grandemente potenziato, divenendo domestico, le sue capacità socioaffettive, e questo non dovremmo dimenticarlo mai. Cosi come il cane anche il gatto possiede ormai una bella, anzi bellissima mente affettiva.


Info Tutto il materiale, i testi e le fotografie utilizzate per questa sezione sono state tratte dal libro Il libro completo del GATTO di David Taylor pubblicato dalla DeAgostini, edito da Edicomma, Milano. Il libro riporta un numero di informazioni maggiore e vi si consiglia l'acquisto.