Il suo mondo

Chi è il gatto?


Per quanto rispettosi si possa essere d'una psicologia ridotta controllata dall'esperienza, e per quanto ci si voglia attenere ad uno studio dell'animale del tutto spoglio d'antropomorfismo, occorre confessare subito che non è possibile lasciar completamente da parte il metodo analitico, se si vuoi cercare di conoscere il Gatto. Se concetti come quelli di Memoria o di Sofferenza hanno un significato comune a tutti gli esseri superiori, o se si considerano le parole Fedeltà, Attaccamento, Curiosità come applicabili tanto all'animale quanto all'uomo, è necessario... aggirarle per affrontare e cercar di capire i misteri psicologici del mondo felino.

È forse possibile generalizzare? Come se tutto il mondo dei gatti fosse composto di soli maschi! (occorrerebbe poi distinguere quelli che sono veramente tali da quelli che lo sono stati un tempo). Non dimentichiamo le gatte! Fra le quali, poi, occorre ancora distinguere: ci sono le vergini e le madri; e ci sono poi le gatte neutre, vittime del progresso, alle quali hanno fatto metter giudizio il bisturi o i raggi X. Infine ci sono i gattini.

E altrettanto variabile è il loro diverso comportamento nei rapporti reciproci, quanto quello dell'uomo in rapporto a quello della donna, o quello della coppia verso il bambino. Si è troppo inclini a credere che si tratti d'un tutto unico, e si afferma (a torto) che i gatti sono ladri, pigri, egoisti; che le gatte sono appassionate e spudorate, che i gattini sono ingenui e innocenti. Le cose non sono poi così semplici! Cerchiamo tuttavia, attraverso l'osservazione scientifica, di sapere con la maggior esattezza possibile: Chi è il gatto?


Il suo mondo


Sociologia felina

Anzitutto un poco di sociologia felina: il «mondo del gatto» conosce anch'esso quell'inclinazione di cui danno prova tante altre bestie, come i cavalli, gli elefanti, i lupi, le scimmie o le foche? Il gatto, che diciamo egoista e gaudente, è, o non è, socievole e capace d'adattarsi alla vita in comune? Una grandissima amica dei gatti, che in meno di dieci anni ne ha raccolti più di un migliaio e ne ha tenuto in casa più di cinquecento, tutti rognosi, perseguitati, miserabili, su questo punto è categorica:

«Mettete venti cani», dice la signora Rigoir, «venti cani presi a caso, sotto un tetto che li tenga uniti, li protegga e dia loro un senso di sicurezza: si azzuffano tutto il giorno; più o meno drammaticamente, s'intende: però si azzuffano, si accapigliano per un sì o un no, per un atteggiamento che uno crede di sfida, per una sciocca questione di precedenza. Sessanta o ottanta gatti, invece, vivono in pace in uno spazio ristrettissimo e, se i maschi sono castrati, non vi sarà mai alcuna disputa a turbare il silenzio. Anzi, c'è di più: la maggior parte dormiranno a gruppi indefiniti, al calduccio, stretti gli uni agli altri. Se c'è un isolato che abbia freddo e voglia aggregarsi alla massa, si avvicina pian piano e con una leccatina di quà, una sfregatina di là, distribuisce carezze di garanzia e ben presto fa corpo con tutti gli altri. Provate a introdurre nel gruppo un estraneo, un gatto nuovo: sarà lui il solo a mostrarsi preoccupato, a tremare al pensiero di non integrarsi correttamente con gli altri. I quali, apparentemente indifferenti, l'osservano con la coda dell'occhio, inclinano impercettibilmente il capo, lo guardano; e nove volte su dieci finiscono con l'adottarlo».

In questi casi si tratta, evidentemente, di gatti senza padrone, di gatti per i quali il mondo è limitato, come in un campo di concentramento, alla stanza comune o alla zona cintata nella quale sono rinchiusi.

Ma che diremo dei veri isolati, di quelli che non dispongono neppure di un rifugio, di quelli che hanno fame, che sono liberi di soffrire e di amare, dei cosiddetti «gatti randagi»? Ebbene, anch'essi si riuniscono sempre volentieri in un cantiere abbandonato, dietro qualche palizzata, in cima a un muro, per cospirare, per farsi coraggio l'un l'altro, per mettere a confronto la loro miseria, le paure e i desideri.




Memoria

Vi sono tuttavia gli indipendenti, gli individualisti a oltranza. In generale sono quelli che hanno avuto non un «padrone», ma un «amico»: quelli che sono stati amati e coccolati dall'uomo e che, separati da quel mondo, ne serbano il ricordo e non possono più vivere altrove.

Biondella era una di questi: e la sua storia di grossa gatta nera, abbandonata dai padroni per cause ingiustificabili, è piuttosto curiosa.

Dopo sette anni! Sette anni trascorsi a far le fusa, al caldo, con pasti regolari e sonni tranquilli; sette anni d'una pacifica vita regolare, proprio quella che le gatte e i gatti sessualmente tranquilli sembrano tanto prediligere.

Biondella venne accolta da un'amica che cominciò subito a colmarla, invano, di tenere attenzioni. Senza mostrare ostilità né timore, Biondella accettava la propria sorte. Restava per giornate intere su una poltrona o un mobile, indifferente a tutto, indifferente a tutti. Passarono otto giorni, tre settimane; Biondella non mangiava, non beveva. Aspettava... non certo la morte, della quale non poteva avere l'idea astratta; bensì il ritomo o l'improbabile miracolo che le facesse ritrovare la propria casa e la persona che amava.

Passò un mese: la gatta visse un intero mese in questa guardinga selvatichezza; e l'amica, desolata del suo atteggiamento, scrisse ai vecchi padroni: «Se avete un pò dì pietà, venite a riprendervi questa povera bestia, che è più fedele ai propri ricordi di quanto lo siate mai stati voi. Dimagrisce, non mangia nulla, aspetta la morte con una dignità impressionante...». La signora, per tutta risposta, scrisse poche righe di vaghe considerazioni e di rammarico, annunciando che avrebbe spedito un pacchetto di certi biscotti per i quali un tempo Biondella andava pazza.

Quale senso sconosciuto dovette avvertirla? Il postino era appena giunto alla soglia di casa, che Biondella balzò a terra, gli corse incontro miagolando, con la coda ritta e rigida come un cero: chiedeva imperiosamente i «suoi» biscotti ! Ne mangiò uno, poi due; bevve un pò di quel latte che per un mese aveva lasciato sdegnosamente intatto, e il miracolo avvenne: Biondella era uscita dal brutto sogno. Il motore riprese a funzionare: in pochi minuti essa era ridiventata la gatta di sempre, e faceva beatamente le fusa. La gatta triste era stata salvata: salvata dalla memoria, dalla prosaica memoria sensoriale, mentre prima era insidiosamente condotta a morire dalla poesia velenosa del ricordo.

Memoria olfattiva, prima, e memoria gustativa poi? Che importa? Perché voler stabilire forme più o meno nobili di memoria? E perché la riconoscenza del ventre dev'essere più vile, nella propria essenza, della gratitudine degli occhi o dell'immaginazione del cuore?

Ciò che stupisce, nei gatti, è proprio questa disposizione a fissare tutto, a registrare e ricordare tutto. Giacché, ereditariamente inquieto e sempre sulla difensiva, il gatto, che per tutta la giornata ascolta e osserva, ha più memoria di quanto si creda. Mike, un vecchio gatto rognoso, d'un bianco piuttosto sporco, gironzolava nei pressi del porto di Cannes, ove dormiva da mesi. Una signora compassionevole, che passava di là, lo prese e se lo portò a casa, ove lo curò per tre giorni: non di più.

Alla prima porta aperta il vecchio Mike, a pancia piena e coperto di unguenti, aveva tagliato la corda. Passò un anno: di Mike più nessuna traccia. Ed ecco che una sera, tredici mesi più tardi, Mike e la signora caritatevole, per un caso stranissimo, si ritrovano di fronte. «Ma quello è Mike!», esclamò semplicemente la signora, ben più sorpresa del gatto. E lui, l'indipendente Mike, Mike il gatto inavvicinabile, le s'avvicina, le si frega contro, comincia a far le fusa e a dar segni di gioia: l'ha riconosciuta all'istante. La signora, commossa da queste dimostrazioni da parte d'un gatto che credeva selvatico, cerca di prenderlo per portarselo via come l'altra volta.

«Ma signora, che idee s'era messa in testa?». Con un colpo di reni, Mike le balza dalle braccia, s'arrampica sul bordo d'una barca in secca e, con gli occhi rotondi, gira verso la strana amica il testone di girovago navigato, riconoscente ma in preda all'indignazione.

«Se m'avesse detto con voce umana che non era d'accordo, o se fosse scoppiato a ridere», mi confidò la signora nel raccontarmi l'episodio, «non mi avrebbe stupita di più». Il caso del gatto che dopo un anno si ricorda d'una persona che lo ha sequestrato per poche ore, è già abbastanza insolito; ma perché mai quel ricordo, logicamente poco piacevole, si sarà mutato, a lungo andare, in simpatia, in evidente fiducia, senza rancore come senza rimpianto? Se la memoria affettiva può dominare in questa misura la memoria sensoriale, ed è cosa frequente nei gatti, ciò si dovrà probabilmente al fatto che essi dapprima «sentono», e in seguito «pensano»; significa che giudicano, e prendono le cose in un certo modo, come facciamo noi; e chi sa, molto meglio di noi.




Gelosia

Ricordo Pussy-Kikl, detto «Kikì il Duro», uno dei miei gatti che, per gelosia, un giorno scelse la libertà; esso era animato, secondo l'ora e l'umore, da un evidente desiderio di vendetta, oppure da una tenerezza segreta.

Il suo mondo

Cominciammo col chiamarlo Pussy, come tanti altri. Nato da padre ignoto e da madre spagnola, non aveva nulla del sangue tricolore della madre: era d'un vago color marrone scuro, che al sole si chiazzava inaspettatamente di macchie nere. Kipling afferma che la tigre Shera ha il manto striato perché i cespugli della giungla l'hanno frustata mentre passava per punirla del suo orgoglio; Pussy-Kikì, nell'ombra della vita fetale, doveva aver già manifestato la propria inclinazione per le zuffe, per essere così segnato di colpi.

Tenemmo soltanto lui, di una numerosa nidiata. Non appena poté aprire gli occhi e attaccare, ancora malfermo sulle gambe, si buttò sulla cagnetta Miche, la quale, buona buona, gli lasciava affondare gli artigli nel suo durissimo pelame di korthal; se proprio esagerava, lei ringhiava, senza cattiveria, e con una zampata lo mandava a rotolare fino all'altra estremità del grande divano. Ma Pussy, di mese in mese, si faceva più grande, più grosso, più ardito: e quel giorno che, sulla groppa del cane lanciato al galoppo, pretendeva di farne la propria cavalcatura, per affermare la sua personalità davanti a tutti, ce ne fece vedere di tutti i colori. Da quella volta divenne impossibile: scalzava dalle radici le piante grasse, rovesciava vasi di fiori sul pianoforte, sventrava le poltrone, inondava i piedi dei tavoli. Per avere un pò di pace decidemmo di farlo castrare, e cosi Pussy divenne Pussah, senza che la soppressione delle prerogative maschili raffreddasse d'un filo i suoi ardori. Siccome a stare in casa si annoiava, partiva verso l'ignoto, scavalcando le inferriate e i muri dei giardinetti del vicinato, ove tutti i gatti erranti della zona usavano raccogliersi a convegno.

Fu così che provò il grande insulto, l'insulto di «chi può», di coloro che non vogliono essere confusi con «chi non può». Ma quei fanfaroni non lo conoscevano bene! Pussy, grande e grosso com'era, e muscoloso come un giaguaro, sollecitò una spiegazione; e durante le notti ancora fresche di febbraio fu tutta una serie di lotte senza quartiere, di zuffe omeriche inframmezzate dalle chiassate più provocatorie, da urli di terrore, da soffiate di collera. Quando la primavera cominciò a rinverdire di gemme i rami secchi, Pussy poté lisciarsi il pelo a piacimento e leccarsi le ferite. Tutti gli altri erano scappati: era rimasto solo. Dormiva sui tetti; faceva la sua comparsa a tavola, una volta ogni due giorni, poi una volta la settimana. La padrona, che amava i gatti per tenerseli e non per vederli prendere il volo alla prima occasione o per sentirli farsi a pezzi fra loro per tutta la notte, finì con l'adottare una gattinà abbandonata, bianca e dolce, magra e timida quanto Pussy era ribelle, scuro, ben piantato e insolente.

Dal giorno seguente Pussy non si fece più vedere. Non s'ebbe alcuna sua notizia per mesi e mesi; poi, una mattina, ricomparve, stranamente agghindato di lana rosa e cosparso di profumo! Una inchiesta svolta con discrezione e qualche confidenza permisero di venire a sapere ch'era diventato il cocco d'una vicina di casa molto... tollerante, ove era noto sotto il nome di Kikì !

Pussy-Kikì si ammalò e tornò all'ovile. Non per molto, però. Il figliuol prodigo, malconcio, con gli occhi semichiusi, il naso otturato, si ricordava dell'infanzia. Sopportava qualunque cosa senza protestare. Con le orecchie basse, si lasciava spalmare e spennellare di revulsivi, trafiggere da aghi brucianti. Tollerò fino all'ultimo l'inalazione maleodorante, che non è possibile rifiutare, quando si sta chiusi in un paniere forato posto su una poltrona di vimini, e il tutto è ricoperto dalla vestaglia pesante del padrone... Si rassegnò a subire tutte le cure durante tre giorni: il tempo di respirare un pò meglio, e soprattutto il tempo di farsi un'idea della gatta: dell'usurpatrice, dell'intrusa che tante volte aveva spiata dal muro di fronte, invano, per vederla almeno un istante, in giardino o sul davanzale. Adesso era lì. Soltanto lo spessore del paniere li separava: essa era lì, tranquilla e fiera, con una sicurezza di sè quasi stomachevole, con un ventre enorme e ridicolo, fatto di chissà che; e oltre tutto, sicuro, anche con un'aria timidetta e mielata, ipocrita al punto da interessarsi alla sua salute!

Kikì il Duro non aveva paura dei gatti; le gatte però gli facevano impressione: lo umiliavano, senza che veramente ne sapesse il perché; la loro vista gli era odiosa. Se ne stava zitto, e attraverso le sbarre della sua prigione di vimini la vedeva passare e ripassare radendo i mobili, annusare con aria sospettosa. La sentì trotterellare d'improvviso verso la cucina con un gridolino di gioia: riconobbe il rumore familiare della «sua» tazza, quella in cui aveva bevuto il primo latte, afferrato i primi pezzetti di cuore crudo, divorato i primi porri e scoperto la panna fresca... la tazza che si divertiva tanto a rovesciare con una testata quando pretendevano di servirgli pastasciutta fredda o pesce di dubbia freschezza.

Kikì dimenticava la febbre, la gola in fiamme del giorno prima: anzi, non sentiva neanche più quella palla irritante che aveva cercato di sputare, di strapparsi con le unghie; quella cosa che chiamano «angina», una parola che ai gatti non dice proprio nulla.

La sera stava molto meglio: ora non aveva più bisogno di «loro», né di nessuno: il che fu evidente quando fu libero di saltare sul tavolo, di balzare sopra l'armadio e di ridiscendere, un pò più tardi, per andare ad acquattarsi sotto la cassapanca del vestibolo.

Lo cercammo dappertutto, eccetto che in quell'oscuro nascondiglio. Lui aspettò la notte e il silenzio; annusò l'aria, con i peli irti; arrischiò qualche occhiata, poi, quando fu ben sicuro, corse in cucina. Un balzo fino alla maniglia della porta, che lo conosceva troppo bene per non cedere. Con un'abile zampata aprì la credenza, si ingozzò d'arrosto, si riempì d'olio di frittura fino a star male. Improvvisamente sentì al piano di sotto la cagna Miche, la vecchia amica, che s'impensieriva, che soffiava piano piano, sul pavimento, vicino alla porta della «loro» camera. Sapeva che non avrebbe abbaiato, perché lo aveva riconosciuto, e perché, salvo eccezioni dovute a paura o sorpresa, i cani generalmente rispettano il sonno; ma capì che restare più a lungo era pericoloso. Quando attraversò il pianerottolo per scendere a pianterreno e, attraverso la porticina della cantina che di notte i guardiani lasciavano socchiusa, passò per la scala di servizio e lo sportello del garage, Miche si accontentò di mormorare sottovoce un saluto di complicità. L'aria fresca del giardino gli schiarì le idee. La strada non aveva rumori, né passanti, né macchine. Uno stupido cane piagnucolava in lontananza come un bambino. Allora Kikì, vendicato e satollo, sbadigliò stiracchiandosi, si leccò il petto con tre linguate, si lasciò cadere sulla ghiaia e s'addormentò fino alle prime luci dell'alba, nel profumo acre della «sua» pattumiera. Non l'avremmo più riveduto per altri sei mesi.




Fedeltà

Geloso della propria indipendenza, e nello stesso tempo ferito al pensiero che un'altra avesse potuto sostituirlo così pienamente nel cuore dei padroni, Pussy era tornato nell'ospitale dimora di tanta reputazione; nella quale, senza allontanarsi da noi e senza perdere la faccia, poteva essere Kikì senza per questo cessare di restare il Pussy dei suoi giovani anni.

La nozione, oggi ben chiara, di ciò che si chiama «territorio» (il senso della «sua» zona, che ogni animale conosce perfettamente e nella quale si sente al sicuro) basta a spiegare perché Pussy non abbandonasse il quartiere; i gatti, tuttavia, sono davvero, come si crede, più attaccati al focolare domestico che fa parte del «territorio» che non alle persone che popolano il quartiere? Vedremo.



Il suo mondo

Otto giorni dopo, il mondo entrava in guerra. A me toccò partire fin dalle prime ore; anche la mia famiglia lasciò la capitale. Tornammo a Parigi solo molto tempo dopo l'armistizio, in dicembre. La casa dei vicini, chiusa; chiuso anche il piccolo alloggio elegante in cui Pussy, tra dame profumate, aveva così ben recitato la parte dei maschi troppo amati, i Kikì «che si lasciano vivere»; e ci chiedevamo, pensando ai bombardamenti, al freddo invernale, alla carestia: che sarà stato del povero Kikì ?

E pensare che fu proprio lui a darci il benvenuto! Era dimagrito, tutto pelo e ossa; zoppicava (infortunio o battaglia?); ma riconoscendo il rumore della «sua» automobile era saltato fuori da chi sa dove, pazzo di gioia. Con la schiena arcuata e la coda ricurva a punto interrogativo, si sfregava contro la «sua» porta, accarezzava le valigie e miagolava disperatamente d'ansietà e di gioia.

Come era vissuto durante la tormenta? Dove s'era rifugiato contro la paura, la fame, il freddo? E quale presentimento, quale segno l'aveva avvertito che stavamo tornando, soli? La cagna Miche era morta; e morta anche la gatta bianca, per aver partorito nel bel mezzo d'un bombardamento. Lui sapeva che era il superstite, che adesso era rimasto l'unico, che era di nuovo il «caro gatto».

Appena aperta la porta, si precipitò in casa, andò a ispezionare ogni angolo, ad annusare ogni mobile; fece una scorpacciata di polmone e si installò d'autorità, la sera, sul nostro letto per dormirci venti ore di fila.

Kikì il Duro ci era rimasto fedele, ben più di tanti amici. È morto di vecchiaia, senza aver varcato, dopo quel ritorno memorabile, una sola volta la porta del giardino.

La gente che non ama i gatti (il che non è una critica) continuerà a sostenere che è un animale indifferente, incapace d'affetto, e che la tenerezza apparente di tanti commoventi Kikì è data soprattutto dalle difficoltà che avrebbero i gatti, più di tanti altri animali, a vivere altrove, timorosi come sono d'andare in cerca d'avventure. I gatti, secondo loro, hanno la memoria corta, e l'ingratitudine è la loro specialità. A tali gratuiti accusatori dedico questa autenticissima testimonianza del loro errore.

Circa quattro anni fa, verso la metà di settembre, a Pordic (Cotes-du-Nord), morì una vecchia signora, di carattere mitissimo, il cui solo compagno era un grosso e simpatico gatto. Si intendevano a meraviglia; non si lasciavano mai, giorno e notte. Il gatto dormiva sul suo letto e divideva con lei la tavola; la seguiva a piccoli passi in giardino, paziente e discreto come un cane fedele.

La portarono via; alcuni amici, commossi, adottarono il gatto, che da allora vive con ogni comodità in casa loro, ad almeno quattro chilometri dalla casa in cui, per sei anni, vicino alla tenera padrona, era stato felice.

Ebbene, ogni anno, quando arriva la metà di settembre, questo animale, che dicono egoista, lascia i nuovi padroni e se ne va. Dove? In pellegrinaggio... Torna nella villa deserta, ove tre o quattro volte all'anno viene una cameriera che apre le imposte, da aria alle stanze. Se è già là quando lui arriva, esso miagola d'impazienza non appena varcato il cancello; se non c'è, lui va su e giù per la scalinata, gira senza posa intomo alla casa. Lei arriva e, appena socchiude la porta, lui fa un balzo, attraversa il corridoio, sale al primo piano, fruga angolo per angolo la camera vuota, poi ridiscende, fiuta un mobile, esce, annusa un fiore vicino al cancello, e lentamente riprende la strada del ritorno.

Quanto tempo dura la visita? Soltanto un'ora. Il gatto rifa in senso inverso i quattro chilometri del percorso, torna dall'attuale padrone (che non ignora più nulla di quest'assenza rituale), salta su una poltrona, s'addormenta... e magari sogna, aspettando che l'anno seguente, sempre in quella ricorrenza di settembre, una forza ignota venga a ricordargli (è una storia stupefacente) che è tempo di memorie!

Letteratura? No, questi sono fatti precisi, testimonianze controllabili; e se esitate a credere che i gatti possano «evocare», essere felici al ricordo, avere la «memoria del cuore», dovete ben ammettere che in certe condizioni di tempo, d'ambiente, di clima, hanno la possibilità di ritrovare, come noi, emozioni da lungo tempo estinte e di riattaccarsi, come noi, al caro passato!

«Tre o quattro chilometri? Sì, forse, tutto sommato, è possibile», mi hanno detto certi ostinati gattofobi, «ma se fossero stati di più, il gatto se ne sarebbe rimasto tranquillamente a casa, incapace com'è d'andar lontano senza correre grossi rischi...».

Anzi: sono numerosissimi gli esempi di gatti che tornano alle loro case attraverso i peggiori pericoli e nelle più tremende circostanze. Dobbiamo narrare la storia di Nerino, il gatto nero del signor Dutilleul, ricevitore delle Poste a Gironcourt-sur-Vraine, nei Vosgi? Il padrone, avendo cambiato residenza, un bel mattino si mise in viaggio con tutti i mobili in un autocarro. Nerino, che stava invecchiando, faceva parte anche lui della spedizione: partì debitamente chiuso in una cassa ermetica. Che cosa accadde, strada facendo, nel cuore del suo padrone? Erano in viaggio da quasi tre ore, quando il signor Dutilleul fece schiodare la cassa, mise in libertà il gatto in aperta campagna e ripartì. In paese si fece qualche commento sulla sorprendente decisione; poi, ben presto, non ci pensarono più. E una sera, un mese più tardi, gli impiegati dell'ufficio postale di Gironcourt sentirono un gatto che grattava alla porta. Gli aprirono: era Nerino, irriconoscibile e affamato; Nerino che scivolò verso il suo angolino preferito, la scrivania del padrone, e si lasciò crollare. Gli offrirono latte, un pò di carne tritata; l'assaggiò per pura cortesia. Il giorno seguente moriva, dopo aver vissuto un'avventura terribile: vivere di caccia o di rapina, evitare le automobili, le bestie e gli uomini, e camminare, camminare per ore e giorni, settimane e settimane, affermando, lungo centocinquanta pietre miliari, la volontà di ritrovare il padrone che, ben a torto, purtroppo, considerava il suo dio.




Senso dell'orientamento

Storie di gatti che tornano a casa, se ne potrebbero citare a centinaia. Esse presuppongono coraggio e sforzo fisico tali da dominare le esigenze più materiali, tutte capacità che raramente si sentono accordare ai gatti. E tutte pongono lo stesso problema: come può un gatto, che non sa nulla della strada presa, che non sa dove si trova, che non ha visto nulla del paesaggio, rifare un simile tragitto, in senso inverso? Si parla di sesto senso. Non esiste un sesto senso, e su tale argomento diamo a Cesare ciò che è di... Mery, il Mery dei miei antenati provenzali, abbastanza chiaroveggente, ai suoi tempi, per conservarsi l'amicizia di Victor Hugo e di Sainte-Beuve contemporaneamente, e che fu uno dei pochi meridionali che provassero il gusto di dedicare alle bestie libri eruditi e nello stesso tempo gustosi, come magari se ne potessero scrivere oggi. Mery, che era a quel tempo conservatore del Museo d'egittologia di Marsiglia, racconta questo aneddoto delizioso, scritto nel gusto d'un'epoca nella quale si aveva il tempo di baloccarsi, e ci si fermava sui particolari, e si lasciava cadere qua e là, nel racconto, una battuta di spirito o qualche idea filosofica, alla maniera dei favolisti orientali. Se riportiamo il testo quasi integralmente, lo facciamo perché vorremmo render pubblico omaggio ad un poeta tanto dotato da poter scrivere in una notte, in seguito ad una semplice scommessa, un dramma di cinque atti, in versi, che venne recitato il mese dopo nei teatri; ad uno scrittore esperto in tutte le forme letterarie, che spaziava dall'ode alla satira, e che scriveva per passione, senza mai prendersi sul serio.

Ma torniamo ai gatti e al meraviglioso istinto che sembra posseggano, di adattarsi alle peggiori circostanze e, se ne vale la pena, qualunque sia la circostanza, di tornare a casa senza conoscere la strada.

«Nel 1842 il guardiano del museo di Marsiglia aveva un gatto vecchissimo e molto melanconico», scrive Mery. «Questo gatto, ridotto quasi all'immobilità, aveva perduto tutte le abitudini della razza: non si lucidava più il pelame con la zampa, non sedeva più come una sfinge, non s'interessava più alle tregende della cantina, non stava più alla finestra per veder passare i cani: ogni cosa gli era indifferente. A Memphis, quattromila anni fa, si sarebbero presi cura di lui; nel nostro tempo, invece, i gatti sono accusati di rendere male per bene, e si preferiscono i cani. I gatti sono vittime della propria logica e giustizia; i gatti hanno il torto d'invecchiare:

quando non sono più giovani, non sono più gatti: la gente li guarda senza bontà, li copre d'insulti, e le povere bestie cercano un cantuccio buio per trascinarvi gli ultimi giorni della vecchiaia. Allora lasciano che nei loro occhi e sulle rughe della fronte si legga tutto ciò che pensano dell'ingratitudine degli uomini e dei capricci dei bambini.»

«In seguito a un complotto ordito nel museo, si decise che il gatto, colpevole di vecchiaia, fosse messo in un sacco e affidato a un guardiano, il quale si sarebbe incaricato gratuitamente di precipitarlo in mare dall'alto del Salto del Marocco.

«Il Salto del Marocco è una roccia a picco sulla strada del villaggio di Rove, a tre leghe da Marsiglia.»

«Il bruto eseguì senza rimorsi l'incombenza. Nell'ora suprema, il gatto, che aveva ritrovato tutta l'energia della gioventù, cercò di dibattersi con quanto di unghie e di denti gli rimaneva; ma aveva contro un uomo che non mollava la preda. Costui estrasse il gatto dal sacco e lo scaraventò nell'abisso. Questa cattiva azione era stata commessa in un museo pieno di reliquie egizie e di mummie dei gatti dei Faraoni. Quattordici mesi più tardi, il guardiano del museo, rincasando a mezzanotte, udì un lamento acuto, intermittente. Mentre, per dovere d'ispezione, gettava l'occhio sul vano d'una finestra interna, scorse, nel più supplichevole degli atteggiamenti, il vecchio gatto del Salto del Marocco.»

«L'indomani, nel sole, nell'ora in cui i fantasmi scompaiono, vide di nuovo il nostro gatto, disinvoltamente adagiato su una stuoia, davanti alla porta del museo.

Subito, allora, sorse una reazione favorevole a quel gatto testardo: fu circondato di cure, trattato con tenerezza. Come aveva fatto a tornare?

Il suo mondo

Rassicurato sul proprio avvenire, il gatto ringiovaniva a vista d'occhio e s'abbandonava a capricciose baldorie fanciullesche. I gatti, che noi consideriamo bestie (per il fatto che non temiamo la loro risposta) posseggono al più alto grado la coscienza della disgrazia e della fortuna, e assumono atteggiamenti e fisionomia conforme alla loro sorte. Il gatto sfortunato si rassegna, si lascia andare, si trascura e assume l'aria d'un filosofo stoico, che monologa incessantemente sulle vicissitudini della vita; ma se appena scorge un raggio di luce, si scuote dall'indolenza, cerca il sole, si pavoneggia sui muri, raddrizza le orecchie, siede fieramente in pubblico, e si riabilita ai propri occhi, togliendosi dal pelame, col pettine della zampa, il sudiciume della povertà.»

Così fu per il gatto del Salto del Marocco: era irriconoscibile. «A quel tempo», dice Mery, «avevo un appartamento al museo di Marsiglia, e mi sforzai in ogni modo per riuscire a spiegarmi il ritorno del gatto. Ne parlai al direttore del Museo di storia naturale. Un giorno facemmo addirittura un pellegrinaggio al Salto del Marocco. Vedendo Marsiglia, di lassù, così lontana, così avvolta da colline, ebastioni, e distese di mare, meno che mai ci parve di poter capire di quali stratagemmi il gatto potesse essersi servito per tornare a casa. Io mi appassionai sempre più alla soluzione del problema, e un giorno, per una fortuita successione di pensieri, mi trovai sulla strada della scoperta.»

«I gatti, come gli uccelli, hanno un udito estremamente sensibile; il nostro sordo orecchio umano non può darcene che una pallida idea. Il gatto del museo, malamente scagliato dal Salto del Marocco, si era probabilmente appigliato ai pini e alle sassifraghe che spuntano irte nella roccia. Ripresosi dallo spavento, e poiché teneva alla vita, come tutti i suoi fratelli di razza, pensò seriamente di tornare alla casa in cui viveva dall'infanzia, e donde uno sconosciuto l'aveva strappato». E il romanziere prosegue:

«Qui comincia un'odissea da far impallidire il genio inventivo degli eroi di Omero. Ulisse è uomo da espedienti volgari, in confronto al nostro gatto. uanto al gatto con gli stivali, quello era un novellino!

«Il gatto non aveva mai visto il mare, immenso mostro; il poveraccio si allontanò istintivamente da quella muta di onde scatenate e urlanti in fondo al precipizio. Giunto sulla calma sommità d'una collina, tese l'orecchio e udì, alle prime luci del giorno, un rumore lontano e ben noto: il rumore d'una grande città che si desta, lo scampanì o delle chiese, il rullo dei tamburi, il fracasso delle ruote.

«"La città è da quella parte", si disse. "Camminiamo verso il rumore; poi si vedrà".

«La campagna offre grandi risorse ai gatti pellegrini; essi vivono di caccia, e la selvaggina non manca, dalle cavallette alle cicale e dai topi campagnoli alle rane.

«Questi sono vantaggi preziosi, ma ci sono anche gli inconvenienti. Ci sono i cacciatori marsigliesi che, non trovando niente da uccidere, si vendicano sul primo gatto che incontrano; ci sono i contadini, gelosi delle conigliere; ci sono i cani, che si credono obbligati ad abbaiare a tutte le diligenze e a tutti i cavalli che passano sullo stradone, e che rendono pericolosi i loro paraggi. Un vecchio gatto che sappia stare al mondo fiuta tali pericoli di lontano, e si tiene a debita distanza. E poi il gatto è dotato d'una pazienza meravigliosa: è capace di starsene appallottolato in un nascondiglio sicuro per una giornata intera; di aspettare la notte oscura, madre della prudenza; e l'occhio fosforescente lo guida su sentieri ignoti ai suoi nemici.

«Il nostro povero viaggiatore attraversò dunque la campagna senza troppa difficoltà, sempre guidato dal rumore della città che si faceva ogni giorno più forte. Era già molto, certo, arrivare fino alla cinta daziaria; occorreva però trovare una casa in una città di centosessantamila anime; una città attraversata una sola volta, e, per giunta, chiuso in un sacco!

«Marsiglia è una città che assomiglia un pò a Costantinopoli. Ogni marinaio possiede un cane, al quale è molto affezionato. Purtroppo, al momento dell'imbarco, il padrone abbandona il cane in una locanda, e l'animale, privo del padrone, passa la sua vita a cercarlo in tutti i rioni di Marsiglia. è così che si è popolata Costantinopoli, da Maometto II in poi.

«Il nostro gatto conosceva questo pericolo: per dieci anni, dall'alto della finestra del museo, aveva visto sfilare tutte le specie canine, dal molosso di Laconia fino al King Charles; occorreva quindi camminare con prudenza, sondare il terreno a tastoni, evitare la luce del sole, non aver fede che nelle tenebre, aver sempre l'occhio ai finestrini delle cantine, vivere frugalmente, accontentarsi di poco, come il topo di Orazio, e infine cambiare ogni giorno di residenza prima dell'alba, per avvicinarsi a casa e guadagnare terreno verso la meta.

«È venuto il momento di dire su che cosa faceva affidamento il nostro gatto viaggiatore. Un gran frastuono formato da tutti i diversi rumori, mormoni e clamori, gli aveva suggerito il punto dell'orizzonte in cui si trovava la città. Una volta giunto a Marsiglia, contava ora su un rumore particolare e ben noto, che doveva segnalargli il quartiere dove era nato; finché non udiva quel rumore speciale, occorreva camminare, camminare ancora, lontano dai cani, lontano dagli uomini, lontano dai bambini e dalla luce.»

«Il museo cittadino, difatti, possiede un grande orologio che ha la caratteristica di suonare sempre qualche cosa. Le ore non gli bastano: suona i quarti e gli ottavi, e anzi fa precedere ogni suoneria da una leggera cavatina d'avvertimento; si è avvisati, e si ascolta.

«Per dieci anni il nostro gatto viaggiatore aveva sentito quell'orologio verboso sul proprio capo; da piccolo, aveva giocato tante volte con i pesi di piombo del pendolo! Finché, vagando da una cantina all'altra, non udiva il suono della casa paterna, il povero gatto si diceva: "Non sono sulla buona strada... Proviamo più in là!". Senza impazienza, senza perdersi d'animo, riprendeva il cammino con le stesse precauzioni, prestando orecchio agli orologi, senza mai sentire il suo, quello che avrebbe riconosciuto in mezzo a un concerto di tutti i campanili d'Italia.

«Il caso, che non aiuta mai gli infelici, avrebbe potuto condurlo prima nella buona direzione, ed evitargli molti tormenti; ma tenendo conto della durata dell'assenza (quattordici mesi), è lecito supporre che prese la strada più lunga e arrivò nel quartiere del museo soltanto dopo aver percorso tutto il dedalo di stradette della città vecchia.»

«Alessandro, Annibale, Fernando Cortes, Robinson Crusoe hanno speso molto meno intelligenza e astuzia strategica di questo gatto nella sua campagna di quattordici mesi!

«Se avesse potuto descrivere la propria odissea, non vi sarebbe lettura più commovente; il numero dei pericoli evitati, il numero dei calcoli fatti, dev'essere prodigioso. E quando finalmente udì in lontananza i prolungati rintocchi, a mezzanotte, del suo orologio, non era ancora tutto finito per lui: aveva ancora molta strada da fare, e molte battaglie da sostenere. «Anzitutto, non doveva farsi prendere da una gioia inconsulta e pericolosa: così vicino alla meta, non doveva compromettere tutto per troppa precipitazione. In un caso analogo, un uomo non ce l'avrebbe fatta; l'animale, invece, agì esattamente come il primo giorno. Controllando l'emozione della gioia fatale, che fa velo agli occhi, non lasciò nulla al caso, neppure nell'ultima tappa, all'ultimo rigagnolo, all'ultimo muro, all'ultimo passo. «E arrivò sano e salvo. Che lezione per l'uomo, che arriva ad essere sciocco attraverso la riflessione, che impara la matematica per sostenere che 2 e 2 fanno 5 e studia le carte geografiche per andare a incagliarsi contro uno scoglio!».




Il sesto senso non esiste

Che lezione, poi, anche per gli scienziati moderni, quella offerta da uno scrittore, anzi da un «letterato», termine che molti di loro usano in senso vagamente spregiativo! In barba a tutti i recinti a percorsi obbligati, a tutti i tests sperimentali, a tutti i labirinti preparati in laboratorio, a tutti i riflessi condizionati, e ai quotidiani progressi della nuova scienza chiamata fisio-psicologia, nessuno, prima di Mery, aveva offerto una soluzione valida al problema. Il fatto di dargli un nome: «senso dell'orientamento», non aveva, di per sè, fornito spiegazioni su di un punto mal noto del comportamento animale, sul quale ci si affatica ancor oggi. Decisamente i poeti sono visionari e precursori: Mery, che non poteva prevedere Pavlov né gli ultrasuoni, fu dunque il primo a sollevare un lembo del velame.

Che il nostro antenato abbia dimenticato che il gatto non è soltanto un uditivo, bensì che gli occhi, i baffi, le sopracciglia sono per lui eccellenti antenne; che Mery abbia trascurato la parte dell'odorato e la meravigliosa sensibilità tattile di cui dispongono le nostre tigri in miniatura, tutto questo è indiscutibile; e tuttavia dobbiamo congratularci con lui. Con la sua immaginazione, fu lui a scoprire il buco della serratura. Oggi, di fatto, sappiamo che i cani e i gatti ritrovano la strada attraverso un susseguirsi di impulsi nervosi d'ordine acustico, visivo, olfattivo e cinestetico.

Questa è la chiave: una chiave che forse un giorno potrà aprirci la porta d'un tesoro vagheggiato da ogni spirito ansioso di sapere; ma della quale, per il momento, non sappiamo ancora servirci. La macchina animale non ci ha ancora rivelato tutti i suoi segreti; al contrario. L'uomo sa come viaggiare: concepisce l'idea astratta del percorso; può stabilire un itinerario. Come riflette, invece, il gatto? E riflette o no, prima di lanciarsi nell'avventura? Non commettiamo l'errore di pensare che l'animale rifletta tanto più quanto più lentamente sembra agisca, come se decidesse ciascuno dei gesti che compie. Il tempo non c'entra per nulla... Un cane parte di galoppo su una pista fresca, e raggiunge la meta in dieci minuti; un altro, lanciato sullo stesso percorso, impiegherà magari due giorni a perdere e ritrovare il filo d'Arianna.

I gatti sembrano dunque procedere a caso, sollecitati come sono da venti percezioni false per una sola utile; e questa mette istantaneamente in moto un'associazione familiare: «Questa strada sassosa e quel cane che abbaia su due note? Si tratta certo della grande cascina ove il latte scorre a fiumi», pensano i gatti. È probabilmente così, da certi odori noti e suoni spesso registrati e visioni già percepite, che si intreccia più o meno rapidamente il legame che li attira, e che seguiranno per raggiungere, attraverso tentativi e sforzi, «la meta», che non è altro se non l'inconscio punto d'arrivo delle loro rischiose prove.




Dove la prosaica scienza perde i propri diritti

«Ma allora», direte, «tutto il resto è letteratura?». Certamente no! Anche negli scritti di Colette nei quali ella sembra essersi presa le maggiori libertà con la verità scientifica, si ritrova sempre la trama della plausibilità. Ricordate quel passo ove, con l'aiuto dell'antropomorfismo, il lettore si sente un pò gatto? Mi riferisco al brano dedicato a Kikì la Dolcetta, ove non è possibile non «pensare da gatto», tanto l'osservazione è esatta e seducente la musica.

«Se volessi», dice Kikì la Dolcetta, «saprei abilmente scegliere, per acciambellarmici, una sedia con le gambe non perfettamente a piombo, che battesse regolarmente contro il suolo: tic-toc, tic-toc, al ritmo della mia lingua. È un trucco che ho inventato per farmi dare la libertà. Tic-toc, tic-toc, dice la sedia. Lei, che sta leggendo, si irrita ben presto e mi grida: "Stà buona, Kikì !". Forte dei miei diritti, io mi lavo innocentissimamente... Tic-toc, tic-toc, tic-toc... Lei balza su, esasperata, e mi spalanca la porta, che io oltrepasso lentamente, con passo d'esiliata. E quando sono fuori rido, rido, perché mi sento superiore a tutti!».

Sarà forse un attribuire abbastanza gratuitamente ai gatti un machiavellismo umano; tuttavia perché, dopo tutto, i gatti non potrebbero, come gli uomini, essere in grado di associare semplicemente, al risultato atteso di una porta che si apre, il rumore d'una sedia zoppicante? Perché non ammettere che, dopo aver capito a più riprese che, una volta dato il via al primo fenomeno, il secondo automaticamente non tarda a seguirlo, il gatto sia capace di provocare il primo, affinché il secondo (più complicato, e non più dipendente da lui) possa realizzarsi? Ciò che, nel piccolo capolavoro di Colette, è forse unicamente e magistralmente letteratura, è l'idea che il gatto possa «sapere» che quel rumore da fastidio alla padrona... E magari, chi sa? Sapremo mai quello che pensano i gatti? Furbi, astuti, inquieti, a volte il loro comportamento è del tutto sconcertante. Le gatte sono gelose per ragioni spesso singolari, come quelle due piccole siamesi (madre e figlia) che, disponendo in casa di un solo maschio per entrambe, erano da lui onorate tre volte l'anno con tenerezza perfettamente imparziale... e su questo non v'era, fra loro, dissenso alcuno. Il caso voleva, ogni volta, che i gattini venissero al mondo press'a poco nello stesso tempo; la madre aveva da cinque a sei piccoli; la figlia due o tre, non di più. Le due gatte non litigavano mai: s'accordavano perfettamente quanto all'incestuoso marito; ma fin dalle prime ore dopo la nascita della rispettiva prole, tutto cambiava. Si osservavano nascostamente, e ogni giorno la figlia, approfittando d'una breve assenza della madre, le sottraeva secondo i casi due o tre piccoli, con abilità pari alla precisione numerica. Perché? Probabilmente per gelosia; e del resto non si potrebbe sostenere che lo facesse per possedere lo stesso numero di piccoli che la madre? La quale, d'altra parte, andava a riprenderseli subito senza far storie, per riportarli nel suo paniere.

Quanto ai signori gatti, non hanno nulla da invidiare alle complicazioni sentimentali delle femmine. Dudù, una vecchia gatta randagia raccolta una sera di gennaio, era pulita, quanto un'altra; ma Filiberto la tollerava soltanto a metà. Per molto tempo la considerammo come la più brava gatta che avessimo mai conosciuta; venuta la sera, scivolava sotto un mobile, si lasciava volontariamente chiudere in una stanza; poi, quando tutti dormivano, nel silenzio della casa, faceva finalmente i propri bisogni. L'indomani scoprivamo il corpo del delitto in un angolo del salotto o sotto una sedia. Disperando di riuscire a educarla, pensavamo seriamente di mandarla in campagna, quando una nostra amica più perspicace, che passava qualche giorno da noi, scoprì la verità e l'ingiustizia. Filiberto, che di maschio non ha più che il nome, si mostrava di fronte alla povera Dudù pieno del più rivoltante egoismo: non solo esigeva che essa mangiasse dopo di lui, ma la cacciava via da ogni luogo: dal marmo dei caloriferi, dagli angoli delle poltrone, dall'alto dell'armadio... e, dato che disponevano d'un solo piatto in comune, ogni volta che la sorprendeva le si scagliava addosso e la metteva in fuga.

Non restava alla povera gatta che provvedere di nascosto, dove poteva sperare di trovare finalmente un pò di quiete, e preferibilmente di notte!




Curiosità

Sì, i gatti sono intelligenti, osservatori, astuti... Sono gelosi. Sono sensibili. Scopriremo anche che sono curiosi? Gatti e gatte lo sono, in verità, più delle più curiose donne: curiosi del contenuto d'un pacchetto che vi porta qualcuno, curiosi di qualunque oggetto nuovo, che annusano da tutte le parti prima d'assicurarsi con una zampata prudente che la «cosa» è inanimata; curiosi del visitatore che osservano da lontano, o che avvicinano subito, a seconda che sembri ostile o simpatico; curiosi del viavai dei passanti per la strada; curiosi, infine, più di quanto si possa sospettare, della vita stessa dei padroni.

Ne conosco uno che spinge la curiosità molto lontano, ben più in là della propria giurisdizione. È Mizzi, il gatto «certosino» del curato di un paesetto a pochi chilometri da Orleans. Mizzi segue il padrone dappertutto; nelle belle notti d'estate, se il prete si reca a piedi nel paese vicino per far visita al collega, il gatto gli trotterella ad un passo: tre chilometri all'andata, quattro al ritorno (tornando, costeggiano la Loira): ci vuole ben altro per spaventare Mizzi. Lui esce per sapere dove va il curato. Forse, penserete voi, anche per il piacere di andarsene a spasso per i campi e di cacciare, strada facendo, al chiaro di luna. No: Mizzi è soprattutto curioso: fa anche da accompagnatore alle parrocchiane. Non vi sono funzioni serali, mercati o balli in cui, scivolando dietro qualche conoscente, non faccia la sua apparizione, con i grandi occhi d'oro spalancati su tutta la gente che va e viene e s'agita nella luce e nel rumore. Rimane lì un'ora o due, poi torna buono buono in canonica; e passa ore intere a guardare attraverso i vetri della finestra. Non si sa se rubi, se sia geloso: è curioso.




Abilità

Abili? Come dubitarne, vedendo questi acrobati nati, che posseggono il senso della fragilità degli oggetti e delle distanze, come le foche hanno il senso dell'equilibrio, i sonnambuli la noncuranza per le vertigini, i pipistrelli il potere di schivare gli ostacoli nell'oscurità?

Mi sorprende sempre, quando vado da un mio amico collezionista, vedere due grossi gatti circolare in mezzo alle porcellane cinesi, o addormentarsi fra due Budda di cristallo. Il padrone di casa non si turba per nulla: «Ho sempre avuto qualche gatto», afferma, «grande o piccolo; in vent'anni, non hanno mai urtato il più piccolo ninnolo. Ah, sì, però; una volta, stiracchiandosi, uno ha fatto cadere un vaso; il solo che non avesse alcun valore commerciale: era falso!». Abili a trarsi d'impaccio; abili ad aprire le porte; abili a togliere un pasticcino dal fuoco, senza bruciarsi. Abili al punto di innovare, di adattarsi alle circostanze, come il gatto del dottor Lafourcade, grande appassionato di passerotti (e si capisce che si tratta del gatto!). Da quel bandito che è, li caccia facendo loro la posta. Pazientemente, senza muovere un pelo, aspetta l'istante propizio per scattare, con grande disperazione del padrone. «Come conciliare», si diceva il dottore, «la colpevole debolezza che provo per quel mostro, senza per questo incoraggiare la distruzione degli imprudenti uccellini?». E così gli venne l'idea di attaccare un campanellino al collare della piccola tigre.



Il suo mondo

Gli uccelli capirono subito: finché il gatto, mutato in statua, non faceva il minimo movimento, per loro non v'era alcun pericolo; e alla minima velleità d'attacco, il sonaglio cominciava a scampanellare e i passerotti, avvisati in tempo, volavano via. Il gatto, contrariato, cominciò a riflettere. Dopo vari giorni d'insuccesso, finì col rendersi conto che il maledetto sonaglio scampanellava nel momento meno adatto. Per caso (ma fu poi per caso?) notò anche un'altra cosa: che quando balzava tenendo la testa bassa, non sentiva più il campanellino. Aveva capito abbastanza: due giorni dopo, lo trovarono ancora occupato a leccarsi i baffi, e aveva intorno qualche piuma di passerotto. Lo tennero d'occhio, e scoprirono l'intelligenza del suo stratagemma: aspettava raggomitolato per terra, con la coda che batteva l'aria piano piano, con voluttuosa impazienza; poi faceva un solo balzo sulla fiduciosa preda... con il mento incollato al collo, impedendo così al campanello di funzionare! «Da quella volta», dice il dottor Lafourcade con aria triste, ma segretamente ammirato, «quando sentiamo il campanellino che suona pianissimo, e poi, ad un tratto, comincia a suonare a distesa, sappiamo che lo scampanellio segna una nuova vittoria del nostro astuto brigante!».



Il suo mondo


Astuzia

L'astuzia, il gatto la manifesta continuamente; coloro che per curiosità scientifica, come il professor Binet, decano della facoltà di Medicina di Parigi si sono imparzialmente proposti di osservarlo, hanno dovuto lealmente riconoscerlo. Un'esperienza classica non aveva mancato di stupire questo maestro della moderna fisiologia.

«Un giorno», racconta il professor Binet, «avevamo realizzato il vuoto in una campana ove era stato introdotto un gatto.»



Il suo mondo

L'animale cadde rapidamente sul fianco, per poi riprendere subito coscienza non appena l'aria rifluiva nella campana. Il giorno dopo non fu facile riuscire a fargliela: non appena azionata la pompa aspirante, vedemmo il gatto posare tranquillamente la zampa sull'orifizio d'aspirazione dell'aria; e la toglieva non appena s'accorgeva che l'aria stava rifluendo di nuovo. Non potemmo far altro che registrare ogni volta la stessa reazione ad ogni esperienza. Era bastata meno di un'ora: il gattino aveva capito!».




Agilità

Sua Maestà il gatto dunque è furbo, scaltro, abile. Se dovessimo sottolinearne anche l'agilità, la prontezza dei riflessi, e paragonarle a quelle degli altri animali, quale mai potrebbe uguagliarle?

Un cagnolino di qualche mese è goffo in confronto a un gatto di tre settimane appena, che gioca con un pezzo di carta appallottolato. Guardatelo quando mima il grande gioco della caccia: ne conosce ogni segreto; ne porta in sè, anche così .piccolo, tutte le fasi; la fremente attesa, l'avanzata repentina, il lento bilanciarsi della parte posteriore del corpo per calcolare l'esatta portata del balzo, fino al lampo dello scatto finale, ove ogni muscolo conosce la propria funzione e ogni gesto il proprio scopo. L'agilità del gattino cresce con lui. A due mesi, esso si stacca dal suolo con salti da ballerina per afferrare i cordoni della tenda o per raggiungere una zampa di coniglio appesa con una cordicella alla maniglia della porta. La troppo facile cattura del topo non gli basta più; si esercita a saltare per poter prendere a volo gli uccelli. Sa aprire il saliscendi delle porte. Non parliamo poi dei gatti che pescano: non ignorano nulla della velocità del pesce, né della potenza della corrente o della rifrazione dell'acqua. Senza contare tutti i «tiri imparabili», le «rimesse in gioco» e gli «arresti della palla in corsa» con i quali molte tigrette del focolare divertono gli appassionati e i grandi conoscitori della tecnica della palla rotonda. Non è vero, amico Paul Weill?

Gli scienziati, ai quali occorrono fatti precisi, cercando di portare più lontano le conoscenze sull'agilità di certi animali, hanno voluto precisare in quali condizioni questi si servano delle estremità; sono state fatte prove sulle scimmie, sui conigli, sugli scoiattoli, sui topi, sui pappagalli; i gatti sono stati gli ultimi. Il prof. J. Cole, dell'Università di Oxford, ha recentemente pubblicato i risultati di tali ricerche. L'uomo, com'è noto, si serve preferibilmente della mano destra. E i gatti? Hanno tendenza ad essere più abili con un membro che con un altro? Per rispondere a questa domanda occorreva anzitutto che fosse posta. Ora, contrariamente agli animali suddetti, il gatto praticamente non si serve degli arti per prendere o portare alla bocca il cibo: dunque era indispensabile anzitutto obbligarli a servirsi delle zampe anteriori. Si è fatto ricorso al classico trucco che consiste nelF obbligarli a prendere il cibo con le zampe. Sessanta gatti presi a caso, tutti adulti e di razze e sesso diversi, furono presi in esame: 27 maschi e 33 femmine.



Il suo mondo

L'apparecchiatura era costituita da un robusto tubo di vetro, lungo quindici centimetri e del diametro di sette centimetri, fissato su uno zoccolo di legno, e asportabile in modo da poter esser disinfettato e pulito; i gatti dovevano introdurre una zampa nel tubo per impadronirsi del più prelibato dei bocconcini: un pezzo di coniglio crudo.

Non appena gli animali ebbero preso familiarità con il recipiente, nuovo per loro, l'esperienza ebbe inizio. Ogni giorno si annotava scrupolosamente quante volte ciascuno di loro usasse l'una o l'altra zampa. Il parametro adottato per la stima delle preferenze fu quello già utilizzato per lo studio dei topi da Tsai e Maurer: veniva considerato tale da dar la preferenza a una zampa piuttosto che all'altra il gatto che si servisse di tale zampa per afferrare il boccone in almeno 75 casi su 100 (i più irriducibili nemici degli esperimenti sugli animali si rassicurino: questa esperienza, del tutto pacifica, piaceva molto ai candidati, che si precipitavano miagolando di impazienza per parteciparvi).

Non è il caso di dare qui un resoconto troppo particolareggiato e complesso dei risultati: limitiamoci pertanto a riassumere. Gli stessi lavori condotti precedentemente sui topi da Tsai e Maurer avevano mostrato che fra quegli animali predominano i destrorsi, mentre fra i pappagalli (Friedmann e Davis) si riscontra una maggioranza di mancini, e le scimmie (Finck e Yerkes) danno un'uguale proporzione di destrorsi e di mancini, con rari casi di ambidestri.

Che cosa ha rivelato uno studio analogo sui gatti? Ha dimostrato la loro agilità: tanto più evidente per il fatto che, contrariamente ai topi, alle scimmie e agli uccelli, i gatti non hanno l'abitudine di usare le zampe per mangiare. Quelli dell'esperienza J. Cole hanno risposto in modo assai curioso: la metà dei soggetti ha usato indifferentemente e con uguale frequenza tanto la zampa destra quanto la sinistra: cioè più della metà erano ambidestri. Dei trenta gatti che restavano, dodici dovettero essere ' rapidamente eliminati poiché manifestavano una distrazione che ne rendeva incontrollabile il comportamento. Quanto ai diciotto che sembravano aver preferenza per una zampa più che per l'altra, erano quasi tutti mancini. Nell'insieme, i gatti sono dunque assai più abili a servirsi delle estremità che la maggior parte dei topi, dei pappagalli, delle scimmie e degli uomini. Il che non ci sorprende.



Il suo mondo

Info Tutto il materiale, i testi e le fotografie utilizzate per questa sezione sono state tratte dal libro Il libro completo del GATTO di David Taylor pubblicato dalla DeAgostini, edito da Edicomma, Milano. Il libro riporta un numero di informazioni maggiore e vi si consiglia l'acquisto.